Dove si radica il vento


Roberto Mutti (1987)

“Ma un’altra cosa ti dirò: non vi è nascita di nessuna delle cose mortali, ne fine alcuna di morte funesta, ma solo c’è mescolanza e separazione delle cose mescolate e sono gli uomini a usare, per queste cose, il nome di nascita. Gli elementi sorgono dall’etere mescolandosi in forma di uomo o di belva feroce o di uccello o di arbusto”. Così scriveva nel V secolo a. C. il filosofo Empedocle di Agrigento di fronte al mistero […]  

Lanfranco Colombo (1987)

Forse nelle feraci e tumide piane padane? Forse nelle ben protette serre delle balze occitaniche? Forse nelle sterminate lande di Sarmazia?
No: il vento si radica tra i calcari e le zolle biancastre delle punte che infilano il mare nostrum e che ne sfidano, appunto, le brezze profumate come l’improvviso respiro di tempesta. C’è una specifica serie di “topoi” che certificano la stanzialità  […] 

Ken Damy (1987)

Fotografo professionista pugliese trapiantato a Milano, dove vive e lavora, Mario si è fatto notare ultimamente per alcune importanti mostre. Come altri colleghi del Sud, Mario è profondamente legato alla sua terra e non ne fa mistero; i suoi primi lavori erano intrisi di aspetti di vita contadina, addolciti da una tecnica poetica: i viraggi policromi, una tecnica progressivamente affinata, che gli ha portato anche lavori […]


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[…] intatto della natura che l’uomo crede di comprendere solo perché ha trovato le parole per descriverla. Ma forse la natura non può salvarsi a chi si ferma alle parole e neppure a chi la vede come oggetto di indagine scientifica; ha bisogno di qualcosa di più sottilmente impalpabile, di una sensazione coinvolgente e magica come sa rivelarla la poesia, la musica e -perché no- la fotografia. Certo, non un tipo di fotografia qualsiasi ma quella che nasce dalla sensibilità di un autore che sa vedere in un albero la mescolanza delle energie, il risultato di uno sforzo magico che tale deve restare. Perché gli alberi sono i segni misteriosi che Mario La Fortezza sa osservare mentre noi, abituati come siamo solo a guardare, ce li facciamo suggire. Gli antichi pensavano che un albero potesse imprigionare un’anima e creavano splendidi miti, noi ci limitiamo più semplicemente a osservare meglio quella protuberanza della corteccia -non vi sembra un volto corrucciato?- o quella massa contorta del fusto che pare proprio un animale pronto a guizzare. Il nostro sguardo si ferma su una radura e si ha l’impressione che quel gruppo di olivi stesse prima danzando ed ora se ne sta lì immobile in attesa di riprendere non appena ci saremo allontanati. Oggi la magia è fatta anche in camera oscura con sapienti viraggi e ricerca di colori delicati; oggi il mito scivola fra le pieghe della psicanalisi e la nostra libertà di immaginazione, di fronte alle forme di questi alberi, serve infine a svelarci a noi stessi.
Eppure Mario La Fortezza ha voluto chiamare questa sua poeticissima ricerca DOVE SI RADICA IL VENTO ma non lasciamoci ingannare ancora una volta dalle parole quando sembrano facili: in greco antico, quello che parlava Empedocle, vento si dice “anemos” e a noi piace tradurlo “anima”.  ROBERTO MUTTI

[…] dell’ulivo. E come esso è radicato nel terreno, così nella nostra storia archetipa sono radicati -da millenni, dai tempi di Athena e del Mytos – Koinemi, che strutturano cento e una metafora. L’ulivo dono degli dei, l’ulivo fonte di vita, l’ulivo che sfida i venti (più Scirocco che Ostro), l’ulivo che trapassa generazioni e secoli, l’ulivo della pace e della colomba di Noé, l’ulivo dei bisnonni, l’ulivo delle fattorie dal respiro antico del tempo. E’ sulla scorta di queste persistenti idées recues, patrimonio immediato dell’intera cultura mediterranea, che Mario La Fortezza innesta il proprio intervento ”fotografico” (ero tentato di scrivere “artistico”, ma l’intelligente lettore comprenderà appieno la tautologia). Un intervento che, se confessa in modo diretto una predilezione insieme tematica e culturale, si caratterizza in modo particolare per i modi della negazione. Sono almeno tre gli aspetti in cui, assumendo l’idea dell’ulivo (assai più che la sua concretezza fisica) come tema del proprio intervento creativo, La Fortezza ne nega le più consolidate, fors’anche banali, letture.
Il primo è quello che la lunga stagione della “straight photography” ci ha a bituati a considerare come il modulo tipico di “resoconto”: vale a dire la massima nitidezza delle linee e la massima varietà tonale, in cui si esprime un’esaltata ricera di plasticità. Basti citare certi “junipera” di Weston -piante assai simili all’ulivo nella tradizione della West Coast- per comprendere quale sia la tradizione storica al riguardo. Il secondo stilema che La Fortezza nega vigorosamente è quello della solarità mediterranea, fatta di bianchi abbacinanti e di blu cobalto, appena interrotta da verdi slavati e da tracce di arene bruciate. Dove le ombre sono profonde e il gioco delle contrapposizioni tonali è netto, deciso, talvolta esasperato. Il terzo modulo storico che il fotografo supera e accantona è quello della narrazione bucolicosociologica, cui ci hanno abituato pur dense stagioni di reportage. Grazie ad una scrittura determinata in gran parte dall’inconscio tecnologico del materiale selezionato (parlo di “inconscio tecnologico”, non di inconscio dell’autore, che realizza invece con assoluta determinazione le proprie scelte espressive), La Fortezza struttura una poetica a metà tra l’impressionismo (forse più musicale che pittorico, ma tant’è…) e l’haiku giapponese (un frammento di poche righe per esprimere, anzi per “tentare” l’universo). Il supporto di carta (una carta leggera, da acquerello) e la sua resa coloristica, unito ai leggeri ritocchi di mano dell’autore, ci restituiscono una martellante serie di “impressioni” di grande sapore emotivo, che -facendo bensì leva sull’universo metaforico storicizzato nel nostro patrimonio culturale, ma superandolo con, la levità dell’Arte- riescono a strutturare momenti di vera poesia. Un ermetico alla Ungaretti, assai più che un decadente alla D’Annunzio, potrebbe trovarvi più di un motivo d’ispirazione.   LANFRANCO COLOMBO

[…] su commissione (Vogue Bambini). La scelta di questo portfolio, per una volta, non mi è costata fatica. Queste immagini di alberi, rugosi e scolpiti dal vento, riuscivano ad essere antiche e moderne nello stesso tempo, senza scivolare nel mero reportage. Sono immagini di grande equilibrio formale; una lunga sequenza di sculture imobili ma vive come in un film a passo uno. Il lavoro è stato condotto per un lungo tempo, con pazienza e costanza; niente è stato lasciato al caso. Mario non si è fatto prendere la mano dall’estetica indiscussa di questi strani alberi secolari, ma li ha catalogati e scandagliati per farne respirare la bellezza arcaica. L’aggiunta di viraggi e colorazioni all’anilina su supporti cartacei preziosi non sono un abuso; Mario non ha stravolto la materia naturale, l’ha solo arricchita di poesia. Colori tenui e contrasti dimessi con saggia e profonda ammirazione per questi totem naturali che gli antichi adoravano per la loro forza in-naturale e selvaggia.   KEN DAMY



 

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